E in effetti, un dato innegabile nell’attuale quadro politico è la scarsissima incidenza della presenza dei laici cattolici sui programmi e gli stili dei soggetti partitici che si muovono sulla scena. Figure come quelle di De Gasperi, di Fanfani, di La Pira, di Moro, potevano essere discusse – come sempre avviene, del resto, quando si fa politica – ma la loro statura intellettuale e la loro competenza le rendevano punti di riferimento obbligato del dibattito pubblico. Oggi la sola agenzia in grado di rappresentare le istanze e le proposte del mondo cattolico è rimasta la CEI che, in assenza di un laicato capace di muoversi autonomamente e di far sentire la propria voce, finisce per svolgere un ruolo di supplenza, esponendosi così ad essere trattata, talvolta, alla stregua di un qualunque partito, senza quel rispetto che merita la sua missione pastorale.
La sola via d’uscita da questa situazione è quella indicata molto chiaramente da Benedetto XVI nella sua prima enciclica. Dopo aver ricordato che «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile» (Deus caritas est, n.28), egli sottolinea con forza che «il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica» e a «configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità» (ivi, n.29).
Vero è, infatti, che i credenti laici, in quanto membri del popolo di Dio, sono anch’essi parte della Chiesa, ma – secondo l’indicazione del Concilio – esiste «una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in nome proprio, come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori» (Gaudium et Spes, n.76).
Dove è chiaro che il cristiano non cessa di essere tale quando svolge la sua funzione civile, dovendo comunque sempre farsi guidare, nelle sue scelte, dalla prospettiva evangelica e dalla Dottrina sociale della Chiesa enunciata dal magistero. Ma, per quella «legittima autonomia» della vita sociale richiamata dal Papa, in essa egli prende posizione in base alla propria valutazione delle concrete situazioni e dei problemi nella loro complessità.
Tutto ciò può accadere, diceva il card. Bagnasco, solo con la nascita di «una generazione nuova di cattolici che (…) sentono la cosa pubblica come importante e alta». Come era nel caso delle personalità di cristiani impegnati in politica sopra menzionate (e solo a titolo di esempio: ce n’erano molte altre!). Il quadro che abbiamo sotto gli occhi oggi è molto diverso. Hanno suscitato molti commenti le parole pronunziate nel luglio scorso dal segretario generale della CEI, mons. Crociata: «Assistiamo» - denunziava il vescovo - «a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria (…) salvo poi, alla prima occasione, servirsi del richiamo alla moralità, prima tanto dileggiata a parole e con i fatti, per altri scopi, di tipo politico, economico o di altro genere».
I fatti, al di là del contesto in cui questa presa di posizione è avvenuta, hanno ampiamente confermato che, senza distinzione di schieramenti, gran parte della nostra classe politica è protagonista di una deriva etica forse senza precedenti. Si potrà dire che anche in passato c’erano gli scandali e che essi si verificano anche in altri paesi. La differenza, però, è in quel «disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo», che rende questo stile di prevaricazione delle regole «gaio e irresponsabile». I peccatori ci sono stati sempre e ci sono ovunque. Ma se ne vergognavano, e ancora, altrove, se ne vergognano. Da noi no. Né qui è in gioco solo un problema di etica sessuale. Siamo davanti a una concezione della vita che mette esplicitamente al primo posto, teorizzando questa scelta, il potere, il denaro, il successo, sacrificando ad essi quel bene comune di cui parlava il card. Bagnasco nella sua prolusione.
Il problema è anche pedagogico. Giustamente mons. Crociata aggiungeva: «Dobbiamo interrogarci tutti sul danno causato e sulle conseguenze prodotte dall'aver tolto l'innocenza a intere nuove generazioni». Ci lamentiamo dei nostri giovani: ma quali modelli stiamo offrendo loro?
Proprio per questa valenza culturale ed etica, molto prima che istituzionale, della crisi attuale della politica, è sterile la tendenza ad attribuirne la responsabilità esclusiva ai politici, o addirittura all’uno o all’altro di essi. Senza minimamente voler misconoscere le responsabilità dei singoli – che non spetta a noi, in questa sede, valutare – bisogna avere il coraggio di riconoscere che i loro stili di comportamento sono una proiezione della nostra cultura odierna, di cui tutti siamo partecipi e in una certa misura artefici. E’ dunque necessaria una vera e propria “rivoluzione culturale”, che non può partire dagli attuali professionisti della politica, ma deve esser promossa dalla società civile e deve innanzi tutto riguardare la mentalità che oggi di fatto la domina.
Perciò le parole del card. Bagnasco interpellano tutti noi, e in modo particolare i credenti. Solo un serio impegno di revisione delle proprie categorie mentali e dei propri atteggiamenti pratici da parte dei cittadini, a tutti i livelli, potrà dar luogo a quella nuova fioritura di una generazione di politici cattolici degni di questo nome di cui ormai sente con urgenza il bisogno e consentire un efficace ricambio dell’attuale classe dirigente. L’impresa non è facile. Ma vale la pena tentare.
(Pubblicato su «Il Serrano» del marzo 2010)
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