Sul “caso Fiat” sono state dette molte cose. C’è stato chi ha accusato l’amministratore delegato dell’azienda, Marchionne, di comportamenti antisindacali e antidemocratici e chi, invece, ne ha difeso l’operato come un atto coraggioso, da cui può derivare un salutare rinnovamento della nostra politica industriale. C’è stato chi ha posto l’accento sulla rottura operata dalla Fiat nei confronti del contratto nazionale e chi, invece, sulla limitata portata dei sacrifici imposti dal nuovo contratto. C’è stato anche chi, pur senza minimizzarne il prezzo, ha sottolineato l’inevitabilità della nuova linea nel tempo della globalizzazione e ha considerato perciò inutile la discussione.
Tra tante voci, è apparsa assente, o comunque molto flebile, quella dei cattolici. Quelli di loro che si sono pronunziati, pro o contro, lo hanno fatto solitamente con argomentazioni ispirate a criteri economici o politici. Molti hanno considerato la questione come un problema interno alla sinistra, lacerata da evidenti contraddizioni. È mancato, nella stragrande maggioranza dei casi, un preciso riferimento alla visione del lavoro espressa in tanti documenti del magistero, nel quadro della Dottrina sociale della Chiesa.
È appena il caso di precisare che il punto di vista etico-religioso non deve mai esonerare da uno sguardo realistico sulle situazioni. Ma la definizione dello sviluppo come «vocazione», data da Paolo VI nella Populorum progressio e ripresa da Benedetto XVI nella Caritas in veritate evidenzia che, in quanto «lo sviluppo umano integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli» (Caritas in veritate, n.17), non ci si può trincerare dietro le anonime leggi del mercato e gli inesorabili meccanismi dell’economia per giustificare comportamenti che in realtà dipendono sempre, in qualche misura, da libere scelte di persone in carne ed ossa: «Anche le situazioni di sottosviluppo (…) non sono frutto del caso o di una necessità storica, ma dipendono dalla responsabilità umana» (ivi).
Ora, in quest’ottica, i criteri spesso ritenuti logici e indiscutibili da chi si riferisce al modello astratto e unilaterale dell’homo oeconomicus, appaiono inadeguati. E non per la sovrapposizione estrinseca di una morale che, così utilizzata, sarebbe inevitabilmente solo moralismo, ma per il riconoscimento che alla radice della stessa vita economica sta l’uomo integrale e che anche alle situazioni del mercato ci si deve accostare con uno sguardo che rifletta quello di Dio: «La visione dello sviluppo come vocazione comporta la centralità in esso della carità» (n.30).
Si noti che il Papa non esita a mettere in primo piano una virtù teologale, piuttosto che generici valori umani, nella convinzione che proprio lo specifico dell’identità cristiana possa essere fecondo anche sul piano sociale ed economico.
Certo, osserva Benedetto XVI, «nei confronti dei fenomeni che abbiamo davanti, la carità nella verità richiede prima di tutto di conoscere e di capire, nella consapevolezza e nel rispetto della competenza specifica di ogni livello del sapere». Ma già a questo livello, «la carità non è un'aggiunta posteriore, quasi un'appendice a lavoro ormai concluso delle varie discipline, bensì dialoga con esse fin dall'inizio. Le esigenze dell'amore non contraddicono quelle della ragione» (ivi).
Non ci sembra, francamente, che qualcuno – credenti compresi – abbia tenuto conto di questa prospettiva, certamente rivoluzionaria – come lo è il Vangelo – nel dibattito sul “caso Fiat”. Eppure il tema oggetto di questo dibattito era e rimane uno di quelli centrali della Dottrina sociale della Chiesa, tanto da potersi sicuramente considerare un “valore non negoziabile”: al problema del lavoro e della sua dignità, prioritaria rispetto a qualunque logica di profitto, i sommi Pontefici hanno dedicato pagine memorabili. Ma chi, in questa circostanza, ha fondato le proprie argomentazioni – per esempio - sulla Laborem exercens di Giovanni Paolo II? Chi si è mobilitato, in un senso o nell’altro, in nome della visione cristiana, rivendicando il diritto di quest’ultima a non essere considerata una consolante utopia, ma una chiave di lettura insostituibile dei problemi e una prospettiva di fondo a cui almeno il credente – ma anche il non credente – dovrebbero ispirarsi per dare ai problemi economici e sociali soluzioni più umane?
Da parte nostra, non intendiamo in questa sede proporne. Esse dovrebbero scaturire da una riflessione comune svolta dai credenti – di qualunque parte politica, quale che sia il loro ruolo sociale – che finora è mancata. Il nostro solo intento, con queste brevi riflessioni, è di contribuire a farla sviluppare. Anche per ricordare a tutti che quando la Chiesa parla della difesa della vita dal suo concepimento al suo termine naturale include anche ciò che ne minacci alla dignità nella fase intermedia.
(Diffuso dall'Agenzia SIR)
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