La notizia che padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso il 15 settembre 1993 dalla mafia, sarà proclamato beato, non è soltanto un motivo di grande gioia per tutto il popolo cristiano, in particolare per quello siciliano, ma acquista un profondo significato teologico e pastorale, che vale la pena di sottolineare.
Tra quanti auspicavano la beatificazione del sacerdote siciliano, ve n’erano di coloro che vedevano in lui soltanto un eroico operatore sociale e un instancabile paladino della legalità, prescindendo dalla prospettiva specificamente religiosa del suo ministero sacerdotale. Nella loro ottica, don Pino sarebbe stato un esempio di come la Chiesa possa rendersi benemerita accantonando o comunque mettendo in secondo piano il suo annuncio di una verità salvifica – fonte, a loro occhi, di intolleranza e di divisioni - , per svolgere invece un servizio umanitario in cui tutti possono riconoscersi. Sarebbe stata questa battaglia soltanto umana a determinare la sua morte.
Riconoscendo che il martirio di don Puglisi è avvenuto «in odium fidei», in odio alla fede, la Congregazione per le cause dei santi ha messo in luce l’unilateralità di questa lettura della figura e dell’opera del prete di Brancaccio. Ciò che egli ha detto e fatto, ciò per cui è morto, non è mai stato altro che il Vangelo. Per questo è stato ucciso, proprio lui, che non era affatto il classico “prete anti-mafia” e che perciò non aveva scorta e non veniva considerato da nessuno “in prima linea”. Invece lo era, proprio perché svolgeva in tutta la sua pregnanza e il suo significato il proprio ministero di presbitero. Egli viveva la sua missione al servizio dei più emarginati, dei più deboli, di tutti coloro che non hanno voce, non “sebbene” fosse prete, o “accanto” al suo essere prete, ma “perché” prete, in nome di quel Dio che, facendosi uomo tra gli uomini e povero tra i poveri, ha reso sacra la fragilità umana.
E per questo – perché attingeva alle risorse spirituali del Vangelo – l’attività di don Pino è apparsa ai mafiosi più temibile di tutte le battaglie per la legalità e per il progresso civile condotte da tanti, pur ammirevoli, promotori del bene comune e della giustizia.
Uccidendolo, i mafiosi hanno in qualche modo evidenziato l’equivoco in cui spesso sono caduti gli studiosi di “Cosa Nostra”. Fondandosi su alcuni ritualismi e su altre somiglianze formali, essi l’hanno considerata come l’espressione di una forma di religiosità, sia pure distorta e criticabile dal punto di vista morale. La mafia, in realtà, col suo culto del potere per il potere, col suo rifiuto di ogni limite alla violenza, è una idolatria del nulla che si pone non come una deviazione etica, ma come la più radicale negazione di Dio. La sua opposizione al cristianesimo non è di ordine morale, ma teologico. E in quest’ottica essa ha ucciso non un difensore della legalità, non un servitore dello Stato, ma un sacerdote che incarnava nella sua vita e nella sua opera l’irresistibile forza salvifica del Vangelo.
Con la sua dichiarazione che don Puglisi è stato ucciso “in odio alla fede”, la Chiesa ha smascherato il falso dualismo tra impegno per Dio e impegno per gli uomini e additato un modello di pastore che, per amore del primo, porta agli altri la salvezza uscendo dal recinto del tempio e di un ritualismo autoreferenziale, immergendosi nella concretezza di una data storia e di una data società. Come ha fatto don Pino Puglisi, attirandosi l’implacabile ostilità di tutti coloro che, odiando Dio, odiano anche l’uomo.
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